Rovine, scarti, ricordi. L’uso nell’arte contemporanea
di Cecilia Guida
Il film “Il Pianeta delle scimmie” (1968) racconta la vicenda di un gruppo di astronauti che approdano su un pianeta sconosciuto dopo un viaggio di parecchi anni nello spazio. Nell’ultima scena il comandante della missione Charlton Heston si allontana a cavallo dopo essere sfuggito a un gruppo di scimmie, che lo volevano utilizzare come cavia per esperimenti. “Che cosa troverà là fuori, professore?” domanda Zira, la scimmia psicologa. “Il suo destino” risponde il professor Zarius. In una spiaggia desolata, un’ombra cade sulla figura di Heston. L’uomo guarda verso l’alto e scende da cavallo stupefatto. L’ombra è ciò che resta della Statua della Libertà, sepolta nella sabbia fino alla vita. Una rovina: la tavola che simboleggia i principi proclamati nella Dichiarazione d’Indipendenza è danneggiata, la fiaccola spezzata. Anche il pianeta delle scimmie è una rovina: si tratta della Terra distrutta da un enorme scoppio nucleare mentre gli astronauti viaggiavano nello spazio. Heston è l’ultimo superstite dell’ultimo anello evolutivo della specie umana.
Circa due secoli prima della realizzazione di questo film, un uomo con un mantello chiaro e un cappello a falde larghe siede sdraiato, come fosse una statua, su un capitello rovesciato. Si trova accanto a dei ruderi e davanti ai resti dell’acquedotto romano e alla tomba di Cecilia Metella. La scena rappresentata in “Goethe nella campagna romana” (1787) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein ritrae il poeta quando si trovava a Roma per il Grand Tour. Questa immagine ha in sé sia la tradizione del ritratto che quella della veduta: la figura di Goethe è in primo piano mentre i monumenti romani alle sue spalle costituiscono lo scenario secondario ma fondamentale per la creazione dell’atmosfera. Quadri di questo tipo sono numerosi perché visitare e farsi ritrarre tra i ruderi della Roma antica andava di moda tra gli aristocratici europei sin dal ’700. In Francia e in Inghilterra ci fu una vera e propria mania per le rovine tanto che le famiglie sulle cui proprietà non esistevano resti antichi se ne fecero costruire di artificiali. Il pittore francese, Hubert Robert, si guadagnò addirittura il soprannome di “Robert des Ruines”, proprio perché dipingeva con sorprendente rapidità e facilità resti di edifici all’interno di paesaggi bucolici. Nella tela “Veduta immaginaria della Grande Galerie del Louvre in rovina” (1796) egli arrivò persino a immaginare un futuro non ancora avvenuto.
La scelta di partire da queste due immagini, per molti versi assai distanti, è legata al fatto che la prima esplicita alcuni elementi contenuti nella seconda. Elementi che a mio giudizio aiutano a comprendere perché le rovine ci affascinano così profondamente. Il film esprime la disperazione per qualcosa che è perduto per sempre, la tela la sensazione di armonia di Goethe che recupera in modo edonistico il rapporto con l’antichità classica con la consapevolezza di essere destinato a diventare a sua volta un classico per le generazioni future. In entrambi i casi l’uomo contempla il proprio destino e quello della propria civiltà. In modo immediato e perciò drammatico nel primo caso, in modo mediato e nostalgico, instaurando una sorta di continuum tra il passato e il presente, nel secondo. E’ questo cortocircuito temporale, a mio parere, uno dei principali fattori del fascino delle rovine.
Etimologicamente il sostantivo rovina (dal latino “ruina” da “ruere” che significa precipitare, cadere a terra) rimanda a una discesa, a un movimento dall’alto verso il basso. Le rovine evocano in chi le contempla la contrapposizione tra la grandezza passata della civiltà che le edificò e l’ineluttabile destino di declino di quella attuale, la tensione tra passato e futuro nel tempo presente, il contrasto tra ciò che permane e quello che si sgretola. Ma la rovina ci affascina anche per un ulteriore elemento. Essa nasce come dall’unione creativa tra uno stato e il suo contrario: la natura e la cultura, come la vita e la morte, la creazione e la distruzione. Ne “La rovina in scena” (2002) Franco Speroni sviluppa questo aspetto sostenendo che la grandezza tipica delle rovine non si dà come esperienza della perfezione del progetto ma della sua perfettibilità nella distruzione-costruzione. La coesistenza di forze tra loro antagonistiche produce un’unità formale nuova che risulta significativa in quanto contiene in sé la spinta a ulteriori processi creativi. Per dirla con Georg Simmel (1911) «la rovina è la sede della vita dalla quale la vita ha preso congedo ma ciò non è nulla di semplicemente negativo o di pensato all’occorrenza, come nelle innumerevoli cose che nuotano nel fiume della vita e che vengono gettate per caso nella sua riva ma che in base alla loro natura possono venire riafferrate dalla sua corrente». In altri termini, rovine, resti e residui sono spazi aperti in cui quello che rimane della storia e il presente condividono una spinta creativa. In che modo questa forza costruttiva si rende visibile? L’uso è una modalità. Il concetto di profanazione di Giorgio Agamben (2005) spiega bene questa idea: «Se consacrare era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini. “Profano” si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso che era, viene restituito all’uso e alla proprietà degli uomini». L’arte contemporanea attiva in modi diversi processi di riuso, oggettivazione e risignificazione delle rovine. A differenza del restauro e della conservazione, che sono operazioni che trasformano la singolarità di una rovina in un’immagine da cartolina, l’uso ne svela il suo carattere di dispositivo aperto, interpretabile e abitabile. Questo risulta particolarmente evidente in alcuni recenti installazioni. Si pensi ad esempio alle sculture che nel 2004 Mitoraj espose ai Mercati di Traiano a Roma. Le figure frammentate e mutilate evidenziavano la violenza e l’istinto autodistruttivo dell’epoca moderna in una chiave fortemente estetica e, attraverso una perfetta compenetrazione tra il contesto classico e l’arte contemporanea, creavano un punto di vista nuovo, affascinante e irripetibile. In qualche modo quelle statue restituivano ai Mercati Traianei restaurati il fascino delle rovine.
Se le opere di Mitoraj si inserivano nell’area archeologica in modo monumentale e spettacolare, opposta era l’idea alla base della mostra “Après le diner, sur l’herbe” di Roberto De Simone a Villa dei Quintili a Roma nel 2007. Si trattava di un progetto fondato sull’assenza: le installazioni sonore abitavano le rovine in modo impercettibile e invisibile riportando la vita in uno spazio immobile e sospeso nel tempo. Le opere suggerivano situazioni più o meno plausibili (il rumore di un ruscello accompagnato dal canto delle rane, centinaia di punti luminosi che disegnavano il movimento notturno delle lucciole, il canto di un grillo, il ruggito di un leone seguito dagli applausi di una piccola folla) e davano allo spettatore il compito di renderle visibili con la fantasia. La mostra era un dettaglio tra i resti bellissimi di Villa dei Quintili ed è un altro esempio di come il linguaggio dell’arte può usare uno spazio architettonico per costruire un senso diverso e produrre una nuova esperienza.
Un altro interessante processo di risignificazione delle rovine viene realizzato in Puglia. “Lu Cafausu”, questo il nome enigmatico del progetto, fa riferimento a una piccola struttura, una specie di pagoda stravagante, fragile e decadente localizzata in una piazza di San Cesario che è ciò che resta di un complesso architettonico più grande abbattuto nel corso del tempo per costruire delle palazzine. Lu cafausu oggi si trova al centro di una strada e non ha alcuna funzione ma ha avuto per decenni (o forse secoli) tanti e diversi usi: dimora per un orfano e il suo cavallo, pollaio, vespasiano, guardiola, sito punitivo, deposito di attrezzature agricole e coffee house. Per il carattere misterioso, la forma di rovina e la memoria dei suoi molteplici sensi, la costruzione è diventata l’ispirazione per quattro artisti - Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti - i quali hanno deciso di usarla come punto di partenza per scrivere delle storie e realizzare delle performance e azioni a Lecce, Rotterdam e New York. Per loro lu cafausu è un posto metaforico; un territorio di accumulazione di tempo, un’elaborazione delle contraddizioni estetiche e il simbolo della perdita di senso del mondo contemporaneo. Per questi motivi è un luogo che possiede un’intrinseca energia creativa di cui i quattro artisti si servono per svolgere interventi di vario tipo (distribuzione di tazzine di caffè, realizzazione di disegni che, in caso di vendita, perdono il loro valore economico, punto di arrivo di un surreale pellegrinaggio, ecc.) grazie ai quali lo spazio diventa ogni volta qualcos’altro.
Come si diceva all’inizio, la valenza negativa della rovina (intesa come perdita della funzione per cui era stata costruita) porta ad accostarla ai concetti di scarto e di rifiuto. Questo fa emergere un altro aspetto che si potrebbe definire il “paradosso delle rovine”: accanto al moto di discesa, alla decadenza, la rovina porta con sé un moto di ascesa. Il precipitare delle cose, l’azione del tempo, il franare del mondo in cenere, sabbia, terra, fango, polvere e…spazzatura (si pensi al “caso Napoli” sulle prime pagine dei giornali per alcuni mesi dello scorso anno) comporta anche una spinta, un movimento verticale verso l’alto, una resurrezione: la rovina, come lo scarto e il rifiuto, con l’accumulo e il tempo si trasforma in un “monumento analogo”. Un processo che è ben descritto in una delle “Città invisibili” di Italo Calvino, Leonia, che è la metafora della società dei consumi. Ogni mattina «i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio» e Marco Polo, guardando attraverso le crepe delle mura della città, si domanda se la passione dei Leoniani sia l’espellere dal momento che gli spazzini sono accolti come angeli. Mentre i Leoniani sono presi nella caccia alla novità, «una fortezza di rimasugli indistruttibili sovrasta la città da ogni lato». Spesso accade che l’arte anticipi la realtà: come testimoniato dalle montagne di immondizia di Napoli... Tornando al nostro discorso, la produzione di rifiuti è parte integrante del processo produttivo ed è l’effetto della costruzione di ordine basata sul principio di utilità. Gli scarti e i rifiuti indicano la contrapposizione tra qualcosa che rimane e qualcosa che se ne va perché si consuma o non serve più; fanno riferimento a un eccesso, a qualcosa che non si assimila, non si integra e viene ricacciata fuori. L’analogia tra il concetto di rovina e quelli affini di scarto e rifiuto è presente all’interno della riflessione benjaminiana sul metodo della storiografia materialistica. Per Walter Benjamin mentre la storiografia borghese valorizza il detto e il visibile, il pienamente realizzato e soprattutto l’appartenenza a una tradizione culturale la cui capacità di riproduzione funziona come istanza di legittimazione, il materialismo storico lavora con il non detto e il non visibile, l’incompiuto, il sospeso e in particolar modo con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili. In un frammento della sezione N del “Passagen-Werk” (1982), in cui si tematizza il montaggio come metodo della storiografia materialistica, il filosofo tedesco afferma: «Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli». Scompare, quindi, ogni criterio gerarchico e di valore nella scelta dei materiali: i più alti prodotti culturali e i più bassi detriti della vita verranno trattati allo stesso modo non per farne un elenco bensì usandoli. L’arte con il riuso e la risignificazione degli scarti mette in discussione i processi della produzione e del consumo problematizzando la distinzione tra le categorie del rifiuto e dell’utile. La distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che ha valore viene annullata nel momento in cui il processo creativo conferisce allo scarto un valore non più legato alla catena del consumo. «Per me la spazzatura non è ciò che la società rifiuta ma un materiale utile che qualcuno ha lasciato in giro. Allora lo prendo io» affermava l’artista francese César.
L’attenzione per gli scarti è presente nella ricerca artistica del ’900 ma è cronologicamente legata alla produzione teorica delle avanguardie, le quali affrontano in modo polemico il rapporto tra forme espressive e flussi concreti della vita, tra estetica e vissuto. Un esempio per tutti è il dadaista tedesco Kurt Schwitters che tra il 1920 e il 1936 costruì nella casa/studio di Hannover una scultura composta da materiali di scarto di vario tipo e oggetti raccolti un po’ ovunque che battezzò “Merzbau” laddove la parola “merz” significa “merce”. Il sottotitolo è altrettanto degno di nota: “Cattedrale della miseria erotica”, in riferimento al venir meno della capacità attrattiva delle merci una volta consumate. L’installazione era in continuo allestimento, cresceva nel tempo e lentamente si fuse con la casa dell’artista arrivando a sfondarne il tetto. Nei “Merz” gli oggetti venivano accumulati secondo la legge del caso e la loro forma non rispondeva a un determinato progetto autoriale. Essi rappresentano l’esperienza della realtà attraverso i suoi frammenti carichi di memorie i quali, seppure non racchiudano il tutto, rimandano nella loro struttura all’incompletezza dell’esperienza, a ciò che non c’è e a quello che manca. Anche l’esponente più noto della Pop Art, Andy Warhol, diceva che le cose che vengono scartate hanno un grande potenziale di divertimento; per lui le scene dei film senza tagli erano molto più divertenti delle scene dove le cose sono tutte a posto. Ma sul riuso degli scarti per lo sviluppo di ricerche estetiche e poetiche diverse si potrebbe andare avanti a lungo e citare i “combine paintings” di Robert Rauschenberg, la Merda d’artista di Piero Manzoni, i resti dei pasti di Daniel Spoerri, le installazioni sonore di Jean Tinguely, gli scarti di tappezzeria di Alberto Burri, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, ecc.
Oggettivazione, presa di coscienza, attualizzazione tornano anche nell’uso che l’arte fa dei ricordi; attraverso il recupero della memoria il passato diventa qualcosa al di fuori di noi, non solo un oggetto da analizzare e comprendere ma anche un frammento che l’uso restituisce al qui e ora attraverso i processi della produzione e del consumo culturale. Torna il parallelismo tra rovine e ricordi. In “Tristi Tropici” (1955) Lévi Strauss descrive bene il processo di oggettivazione caratteristico di entrambi: «Trascinando i miei ricordi nel suo fluire il tempo più che logorarli e seppellirli ha costruito coi loro frammenti le solide fondamenta che procurano al mio procedere un equilibrio più stabile. Un ordine è stato sostituito con un altro. Gli spigoli si assottigliano, intere fiancate crollano. Un antico particolare insignificante emerge come un picco mentre interi strati del mio recente passato si cancellano senza lasciare traccia».
Ma il fascino della rovina consiste anche nel risvegliare in chi la guarda la coscienza del tempo, nel ricordare (“remember” in inglese) una storia passata e, facendo ricordare (“remind”), nell’esorcizzare la paura dell’oblio. L’artista francese Christian Boltanski lavora sul concetto di tempo e di memoria. Nelle sue opere egli usa gli oggetti non per se stessi o per la loro forma ma piuttosto perché richiamano alla mente storie comuni e avvenimenti passati. Nell’installazione al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna i resti del DC9 sono circondati da 81 specchi neri (tanti quanti il numero delle vittime) che riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio mentre dietro a ognuno di essi degli altoparlanti raccontano la vita e i pensieri che scorrevano nella mente di ognuna delle persone a bordo. Inoltre attorno a ciò che resta del velivolo sono disposte 10 grandi casse nere in cui sono raccolti decine di oggetti personali appartenuti alle vittime. Più che un memoriale in senso classico sembra che Boltanski abbia voluto fare un “allestimento” usando tutto ciò che resta della strage, materiali visibili e invisibili, oggetti e ricordi: vita e morte, passato e presente coesistono. Chi visita il memoriale è allo stesso tempo partecipe della tragedia (negli specchi che rappresentano le vittime si vede riflessa la propria immagine, su quell’aereo poteva esserci ognuno di noi) e spettatore di una messa in scena in chiave estetica: ci si immedesima nella vicenda e al contempo si guarda da fuori la rovina, quello che resta di quell’evento.
Boltanski in numerose installazioni alla memoria usa il formato degli almanacchi universitari americani, cosa che fa venire in mente Facebook, al momento il sito più diffuso tra quelli di social network. L’idea viene proprio dagli annuari con le foto di ogni singolo membro (facebooks, appunto) che alcuni college statunitensi pubblicano all’inizio dell’anno accademico. L’obiettivo iniziale del sito era infatti quello di far mantenere i contatti tra gli studenti delle università e dei licei, ora conta più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo. Mi domando se i processi di risignificazione e di “riuso” della memoria siano presenti anche qui. Mi sembra che siamo di fronte a una forma ibrida dove la dimensione del ricordo e del suo riuso, al di là delle intenzioni di ognuno, assume comunque un impatto estetico. Si tratta di individui e comunità che realizzano una autorappresentazione di sé: frammenti di un passato individuale vengono buttati nella rete insieme a istantanee del presente in un frullato fatto di foto da bambino, immagini di cartoon, frasi senza senso o profonde, pezzi di vita decontestualizzati. Quello che emerge è un insieme estetico che con gli scarti e i resti delle nostre vite esprime l’essenza della società dell’immagine. L’esito finale è una manifestazione estetica collettiva in cui i singoli apporti individuali si disperdono nell’insieme.
Riferimenti bibliografici:
Agamben, G., 2005, Profanazioni, Roma, Nottetempo.
Augé, M., 2004, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri.
Benjamin, W., 1982, Das PassagenWerk; trad. it. 1986, Parigi capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi.
Calvino, I., 1996, Le città invisibili, Milano, Mondadori.
Lévi-Strauss, C., 1955, Tristes Tropiques; trad. it. 1960, Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore.
Simmel, G., 1911, Die Ruine; trad. it. di G. Carchia 1981, La Rovina, «Rivista di Estetica», n. 8.
Speroni, F., 2002, La rovina in scena, Roma, Meltemi.